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LETTERA AL DIRETTOREA

Comunicati Segreteria - 23/09/2010

Gentile direttore,
nei giorni scorsi su questo giornale il segretario provinciale della Cisl Franco Lorenzon ha svolto un ragionamento basato da un lato sull'attacco alla Fiom e alla Cgil e dall'altro sulla difesa della filosofia di fondo su cui mette radici l'accordo separato che ha portato al cosiddetto "Modello Pomigliano".
Sul primo punto va precisato che le opinioni diverse che nascono dal pluralismo sindacale - forte attraverso i propri iscritti di una rappresentanza solida nel mondo del lavoro - dovrebbero essere viste come un contributo migliorativo rispetto ai bisogni del lavoratore.

E va anche messo in luce, altrimenti non si capisce nulla di quello di cui si parla, che certe posizioni sono evidentemente figlie di un tentativo di sferrare un attacco decisivo alla Cgil su un terreno che non ha a che fare con il merito delle questioni, ma che si gioca tutto su un piano ideologico e che riguarda l'idea stessa di sindacato, il suo ruolo, la sua libertà e la qualità delle relazioni industriali: cioè uno dei fondamenti della democrazia.

Per quanto riguarda la questione Pomigliano, la premessa è che non si sta parlando di un accordo aziendale, come dovrebbe essere, ma del tentativo di imposizione di un modello. Lo dice il fatto che da una discussione riguardante le esigenze produttive di Fiat si è passati al modello vero e proprio, da esportare anche negli altri settori, tanto che i contenuti di quell' accordo, su cui la Fiom ha espresso contrarietà, non sono stati ricercati all'interno della contrattualizzazione di secondo livello, come sarebbe stato naturale, ma stravolgono il ruolo del contratto nazionale. Disdettare il ccnl unitario (ancora vigente) da parte delle imprese, è questo.

Viene da chiedersi se, abbandonato il piano ideologico di scontro con la Cgil che asseconda le pulsioni neo corporative che percorrono governo e parte degli industriali, ci si sia davvero posti nel merito la questione su quale debba essere la politica industriale di Fiat, quali siano le certezze produttive reali, se davvero questo modello sia funzionale al recupero di efficienza e competitività o se sia soltanto un cavallo di Troia, utile a demolire sia il sindacato antagonista che quello concertativo.

Queste considerazioni rendono chiaro come sia strumentale il teorema, purtroppo sostenuto anche dalla Cisl, secondo cui quell'accordo è per il rilancio del settore auto e la difesa dei posti di lavoro, mentre Fiom e Cgil terrebbero nel sacco diritti che non sono tali, ad esempio il lavoro al sabato oppure no, o fare sciopero in determinate circostanze, la questione dei permessi, delle votazioni e quanto altro.

Primo punto: l'orario di lavoro, in sostanza, passa da 40 a 48 ore settimanali per tutto l'anno. Accordi con scambio di alti livelli di flessibilità d'orario sono stati fatti anche in provincia di Treviso, ma su un numero di turni che non è di tre come a Pomigliano ma quattro, portando ad orari di 36 ore settimanali. E già questo è significativo di importanti differenze.
Punto secondo: il patto di scambio, costosissimo per i lavoratori, riguarda un rilancio che dovrebbe mettere in produzione gradualmente, per il gruppo, fino 6 milioni di vetture all'anno, prevalentemente di gamma media e bassa, dirette cioè a quella fascia di consumatori che in questa fase subisce maggiormente gli effetti della crisi ed ha minore capacità di spesa. Siamo sicuri che quei sei milioni di vetture all'anno, di cui 780 mila prodotte a Pomigliano, saranno veramente vendute, contando che sui mercati ricchi e più interessanti le concorrenti di Fiat entrano con modelli di gamma alta, che oltre ad offrire maggiori fatturati riescono anche a valorizzare i saperi dei lavoratori e con condizioni di lavoro molto migliori, come alla Volkswagen e alla Renault? E cosa succede dei diritti e della qualità dell'occupazione se il piano dovesse in realtà fallire, magari facendo fare allo stabilimento di Pomigliano la fine di Termini Imerese, mentre intorno si afferma il nuovo modello di produzione e di contratto generalizzato, che si conforma agli standard non certo avanzati dei paesi in via di sviluppo?

Chi firma gli accordi escludendo uno dei più grandi sindacati dei metalmeccanici in Europa dovrebbe poi chiedersi se l'esito naturale di un sistema che introduce deroghe non negli accordi aziendali di secondo livello ma nel contratto nazionale, non possa che essere la cancellazione della contrattazione stessa. Che nelle sue parti fondamentali, quella migliorativa e quella difensiva, viene svuotata di margini di manovra da un sistema neo corporativo e neo consociativo, che impone lo scambio tra una riduzione dei diritti ed un peggioramento del lavoro con il mantenimento, però non vincolante e solo ipotetico, di determinate soglie occupazionali.

Tutto questo per produrre la Panda? Evidentemente c'è altro, cioè l'idea pericolosissima che il futuro della nostra produzione industriale, anche quello dei territori a vocazione manifatturiera come la provincia di Treviso, sia tutto proiettato su un mercato di bassa qualità della produzione, bassa qualità delle competenze, bassa remunerazione (in proporzione all'orario), basse tutele collettive e individuali.

Se si sposta il confronto dal piano ideologico e di scontro voluto e cercato con la Cgil a quello della sostanza ci si deve chiedere se le evoluzioni contrattuali che qualcuno vuole modellare intorno a Pomigliano siano davvero utili al sistema Paese, o se invece non ci si trovi di fronte ad un costosissimo ultimo canto del cigno di un certo fallimentare modello produttivo, che la politica non ha intenzione di contribuire a cambiare per ragioni di mera contabilità elettorale.

Non è un problema di falsi diritti, ma di un modo ideologico, come nel caso in passato dell'articolo 18 e oggi del collegato al Lavoro, di affrontare questioni pratiche, come il rendimento ottimale degli impianti, che va raggiunto con la consapevolezza e il consenso dei diretti interessati, cioè i lavoratori. I veri nodi, oltre alla cinesizzazione del lavoro italiano, riguardano anche il procedere nel tentativo di dividere se non sfasciare il sindacato, persino a colpi di referendum governati dalla paura - il ricatto della chiusura a chi da anni è in cassa integrazione, come a Pomigliano - da cui non si raccoglie nulla. Con la prospettiva di scardinare il sistema della rappresentanza, anche quella delle imprese, con conseguenze devastanti sul piano del governo condiviso delle trasformazioni sociali e dei cicli economici. Così si mette a rischio la coesione del corpo sociale e si presta il fianco a fenomeni estremisti, per quanto minoritari, nei cui confronti ci potrebbe essere la tentazione di rispondere con metodi e strumenti autoritari, come la storia nota e meno nota della Repubblica insegna.

Paolino Barbiero, Segretario generale Cgil provinciale Treviso