Gentile direttore,
c'è una incompatibilità democratica tra gli evasori fiscali e le comunità in cui essi operano e alla quale sottraggono risorse e legalità.
E l'incompatibilità si allarga a tutti coloro che, per spirito di corpo, di categoria o di classe, tendono se non a giustificare quantomeno a trovare
"mille e una" ridicole e offensive - per il buon senso - giustificazioni.
Nel caso delle ultime due aziende finite nella rete dei controlli non parliamo di piccole irregolarità amministrative o di qualche migliaio di euro di nero creati, ma di oltre 100 milioni, tra ricavi nascosti al fisco ed evasione dell'Iva.
Non solo: l'evasione fiscale rappresenta anche una zavorra per la competitività complessiva perché crea situazioni di concorrenza sleale interna e così turba il normale e naturale corso del mercato, finendo per punire le aziende sane, quelle che non potendo e soprattutto non volendo contare sulle riserve illegali finiscono per essere travolte dagli sporcaccioni del fisco, che grazie al nero possono ottenere posizioni di rendita a cui non necessariamente corrisponde una qualità del prodotto, del processo o dell'occupazione.
Di fronte a questi fenomeni monta l'irritazione verso chi continua a pensare che il recupero della competitività del sistema Paese passi invece per la svalutazione della merce lavoro, che poi altro non è che la svalutazione umiliante della dignità dei lavoratori. La religione neoliberista per cui meno diritti e meno garanzie sostanziali, anche di fronte a fattispecie particolarmente delicate come quelle che fanno riferimento all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, si dimostri orpello ideologico che nulla ha a che fare con i veri problemi del sistemi produttivo ma che semmai usa le attuali difficoltà per smontare, un pezzo alla volta, l'apparato di politiche e garanzie sociali avanzate che l'Italia ha saputo darsi negli anni.