Gentile direttore,
sono d'accordo con quanto ha scritto il presidente della Regione Veneto Luca Zaia su questo giornale, dove sostiene che il mercato del lavoro moderno ha bisogno di flexsecurity, cioè di strumenti di ammortizzazione sociale attiva e passiva, oggi si dice "welfare to work", non solo per tutelare le condizioni dei lavoratori con contratti instabili, ma anche per attivare meccanismi di qualificazione delle loro professionalità.
Vorrei che fosse però chiaro ai lettori che se oggi la flexsecurity in Italia non esiste è perché chi ha fortemente voluto la flessibilità contrattuale, nel 2003, non ha ugualmente voluto che il welfare per gli atipici fosse parte integrante della legge 30.
Non è ad esempio quello che succede per la cassa integrazione, pagata da imprese e lavoratori, o per le azioni di welfare complementare nell'artigianato e nel commercio, finanziate dalla bilateralità, cioè ancora aziende e lavoratori.
Mettere a carico delle imprese una quota per un fondo destinato alla flexsecurity avrebbe invece depotenziato, anche se in parte, la ratio della legge 30, che non era quella di introdurre elementi di flessibilità positiva ma ricercare nuovi territori di competitività attraverso la drastica riduzione del costo del lavoro e dei diritti, come si persevera a fare oggi ad esempio con la norma sull'arbitrato, severamente criticata anche dal Presidente della Repubblica.
Una politica assolutamente fallimentare, perché i nuovi contratti hanno sì portato ad un lieve incremento del tasso di attività, ma posizionando la nuova occupazione prevalentemente su fasce professionali medio basse e precarizzando in maniera indecente il lavoro di qualità, ad esempio quello nella ricerca.
Paolino Barbiero, segretario generale Cgil provinciale Treviso