Gentile direttore,
quando si tocca il fondo del barile della crisi, in assenza di reali e non superficiali analisi sulle cause dell'attuale difficoltà economica e sociale, c'è una politica che ha il vizio di attingere alla questione immigrazione come serbatoio di ricette semplicistiche e populiste per offrire all'opinione pubblica soluzioni "pret a porter" con cui si dovrebbe mettere mano soprattutto alla crisi dell'occupazione senza pensare allo sviluppo necessario per mantenere l'equilibrio nell'economia e nel mercato del lavoro.
Questo ha fatto nuovamente il presidente della Regione Luca Zaia: tornare a solleticare le pance con la falsa competizione tra lavoro italiano e straniero.
Così però si evita di andare alla radice, cioè alle ragioni e ai bisogni che stanno dietro alla decretazione dei flussi: richiamare percentuali elevate di lavoratori stranieri con basse qualifiche, per soddisfare un bisogno di braccia destinate a produzione povere di valore aggiunto, che offrono lavori pagati poco, il tutto in un quadro in cui la competitività si gioca sulla quantità ed il basso costo invece che sulla qualità dei prodotti e dei saperi.
Sono invece oggetto di politiche spesso marcatamente segregazioniste, tendenti a confinare i migranti in un limbo di senza diritti, come nel caso dei provvedimenti su casa, assistenza, bonus bebè, fondo affitti, diritto ad accedere alle liste per la rioccupazione. Tutte cose che non servono all'integrazione invocata proprio dal presidente della Regione e che amplificano le distanze. Una doppia morale che da un lato distingue buona e cattiva immigrazione, dall'altra generalizza lo straniero come un fattore di produzione, ostacolato nel godimento di diritti fondamentali che la Costituzione non difende soltanto ai cittadini italiani.
A Luca Zaia vorrei dire che, parlando di quote regionali, ci si dovrebbe chiedere perché in costanza di crisi un certo tessuto produttivo continui a richiedere manodopera di basso livello e precaria, attingendo preferenzialmente tra gli immigrati ora disoccupati, compresi gli stagionali e le badanti. E se questo non sia sintomatico dei mali profondi della nostra economia: non perché servono stranieri in quanto tali, ma perché si continua ad avere bisogno di lavoratori scarsamente qualificati, da inquadrare in profili con retribuzioni altrettanto basse, condizione necessaria a mantenere competitive certe produzioni che altrimenti non starebbero in piedi.Mentre gli italiani e gli stranieri stabili non rientrano più in questa fascia: i primi in quanto più profondamente scolarizzati, i secondi perché sempre più spesso protagonisti di percorsi di crescita professionale ed entrambi nel mercato del lavoro cercano prospettive di un lavoro qualificato e con retribuzioni più adeguate.
Altri paesi europei, penso alla Gran Bretagna, la Danimarca e l'Olanda - e altrove in Canada, Nuova Zelanda e Australia - hanno risolto il nodo della razionalizzazione del fenomeno migratorio attraverso il sistema dei punteggi. Le politiche a punti non sono selettive di un diritto, ma mettono per così dire in bolla l'immigrazione con i bisogni del Paese destinato ad ospitarla. Il meccanismo, per quanto complicato nella sua applicazione, è semplice e funziona: riduce i surplus di immigrazione e mostra come, perché e in quali aree produttive si ha bisogno di manodopera straniera.
La maturità rispetto al modo di intendere l'immigrazione passa attraverso l'accogliere con consapevolezza per bisogni professionali, sapendo che ci dev'essere la disponibilità ad allargare i confini dei diritti senza limitazioni etniche, religiose o di passaporto. Ed è questo che fa vera integrazione, altrimenti dobbiamo rassegnarci al declino del sistema economico che, assieme alla curva demografica di un'Italia con l'attesa di vita che si allunga e un mercato del lavoro che si restringe, ci consegnerà un futuro con meno benessere collettivo.
Paolino Barbiero, Segretario Generale Cgil provinciale Treviso