Immagine di copertina

LETTERA AL DIRETTORE

Comunicati Segreteria - 22/01/2010

Gentile direttore,
se quello di Rosarno non è certo un modello di convivenza, alla provincia di Treviso non basta essere o essere stata occasione di occupazione, per dirsi modello di integrazione.
Per fare integrazione non basta la disponibilità di lavoro. Serve anche l'accettazione, o la disponibilità all'accettazione.
Ordine e sicurezza sono da sempre le parole d'ordine della politica della Lega in materia di immigrazione, tutto ridotto ad una semplificazione banale del fenomeno come ad un fatto meramente di ordine pubblico. E questo perché esiste il preconcetto che lo straniero, proprio perché tale, sia portatore di rischi criminalità.

E' il perno dell'ideologia xenofoba: la civiltà di Roma e la sua superiorità sulla civiltà della sabbia, come amava ricordare il vice sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini, autore della celebre massima sui neri abituati a inseguire le gazzelle e scappare dai leoni.
Il modello Treviso manca dell'inclusione sociale, formale e sostanziale.
Sostanziale perché l'immigrato è da tanti considerato un diverso, percepito come corpo estraneo, un elemento di passaggio. E per questo non è meritevole di diritti pari a quelli degli italiani, quindi non è integrato in maniera formale.
Lo si preferisce come vuoto a perdere del sistema economico, forza lavoro necessaria ma solo a tempo determinato e non meritevole di investimenti sociali e di protezione, di tutele. Dovrebbe vivere in un limbo legato alla durata del suo contratto lavorativo, fatto coincidere con il suo contratto di soggiorno. Una scelta, quella della Bossi –Fini, che non disciplina i flussi migratori delle persone ma svilisce tutto a importazione di manodopera.

Non può essere un modello di integrazione una provincia in cui le istituzioni compiono nei confronti di queste persone scelte brutali: la negazione del diritto all'accesso alla casa, la negazione del diritto ai contributi sociali, tutte articolazioni burocratiche di una forma di segregazione.
Il punto vero è che queste sono purtroppo politiche ad alto gradimento. Nelle fabbriche è passata l'idea che lo straniero non sia un collega, ma un concorrente. Nei paesi e nelle città è diffuso il sospetto verso le comunità immigrate, come se questa loro condizione giuridica fosse il presupposto di una naturale vocazione al disordine, alla violazione delle leggi, alla criminalità. Non può essere integrazione aver bisogno di lavoratori stranieri ma poi non tollerarli quando, fuori dalla fabbrica, cercano di vivere una esistenza all'insegna della normalità, fatta anche di bisogni e di diritti.
Non è integrazione se c'è una massa di lavoratori che, finito l'orario nelle fabbriche, nei magazzini, nei mercati, nelle cooperative o terminato di badare a nostra madre o a nostra nonna, è costretta a diventare un esercito di invisibili paria.

Ma l'integrazione è una priorità.
Saperne definire il modello è una urgenza perché buona parte degli immigrati non è qui per una "toccata e fuga" e perchè i loro figli, tanto più se la politica saprà essere lungimirante, sono destinati a diventare gli italiani di domani, la generazione Balotelli che già si vede e si sente, pelli scure e occhi a mandorla, ma anche impronunciabili nomi balcanici, che parlano con un forte accento e in qualche occasione l'inflessione dialettale nostrana. Sono bambini con gli stessi desideri, le stesse aspirazioni, gli stessi problemi dei nostri bambini e ai quali è difficile spiegare che loro sono diversi, che l'italianità non è un fatto di coscienza ma una questione di razza.

A qualche superficiale osservatore può far comodo spacciare la convivenza ordinata per integrazione. Ma sono due cose diverse. Una provincia in cui per pregare ci si deve radunare bestialmente in un parcheggio per sfuggire ai divieti di farlo in un luogo chiuso non può essere considerata un modello di integrazione.

Paolino Barbiero