Sulla diagnosi siamo evidentemente tutti d'accordo: l'Italia è un Paese malato per mancanza di sviluppo, a causa di politiche economiche deficitarie, ammorbato da una crescente ingiustizia che rischia di minare profondamente la coesione sociale.
E' altrettanto chiaro che a distinguere, non a dividere, le sigle sindacali e le associazioni di categorie (lo dico alla luce delle recenti manifestazioni di Cisl, Uil e degli artigiani e industriali di Treviso) sembrano più i toni che i contenuti.
Ci si può ragionevolmente dividere sui toni? Io credo di no. E lo dico anche alla luce del recente documento, inviato al Governo, che su una piattaforma di richieste forti, orientate al bisogno di politiche serie e decise che guardino allo sviluppo, si sono ritrovate insieme tutte le parti sociali.
A soffrire sono tanto le imprese, per cui il sviluppo non si fa nulla, quanto i lavoratori, i dipendenti ma anche gli autonomi molti dei quali in realtà precari: tutti penalizzati dall'ortodossia dei tagli lineari che oltre a zavorrare ogni speranza di ripresa trincerandosi dietro al refrain del "la crisi finanziaria non è finita", pratica la più acuta politica di inasprimento fiscale dell'ultimo decennio, un moltiplicarsi di prelievi che non deriva solo dalle scelte del superministro di attaccare il reddito dei cittadini sul fronte dei ticket, della nuova tassa sulla casa, dei tagli ai benefici fiscali soprattutto per le famiglie (mutui, asili, spese assistenziali) ma che con la stretta sugli enti locali comporta un aumento della tassazione territoriale senza precedenti. Il tutto peraltro non avviene e si giustifica in presenza di una qualità e quantità di servizi costanti, ma è contemporaneo ad un arretramento sempre più significativo delle prestazioni, in particolare quelle sul fronte del sociale.
Da decenni questo Paese in costante crisi da debito viene tenuto in piedi da un fisco-salasso che spreme al massimo il lavoro dipendente e i pensionati, che non possono sfuggire alla tassazione, e che lascia impunita la vasta e vergognosa area dell'evasione. Da anni questo Paese sempre a rischio di crac spreca risorse non solo nei mille odiosi privilegi della casta politica, ma anche attraverso le inefficienze clamorose legate al disordine istituzionale. Il federalismo doveva razionalizzare questa situazione ed ha finito invece per aumentare i centri di costo e di prelievo, moltiplicando la fame di entrate della macchina amministrativa e creando una confusione di competenze e una inefficiente frammentazione di funzioni. E questo è un fallimento epocale.Le scelte coraggiose che il governo dovrebbe fare non stanno solo nel capitolo dei tagli, i soliti sacrifici chiesti però sempre ai soliti; e non è neppure con le riduzioni di stipendio e dei benefit dei politici che si risolvono i problemi se allo stesso tempo non si scioglie il nodo della corruzione, in mestastasi all'interno del corpo Pubblico di una Italia sempre meno meritocratica e sempre più furba e marchettara.
Su questo siamo tutti d'accordo, anche gli imprenditori che ora si vedono tagliati gli sgravi sulle assunzioni, cosa che bloccherà il già depresso mercato del lavoro e che comporterà una tendenza alla riduzione del salario. Il punto è: si riesce a trovare, rispetto ad esempio alla complessità della situazione trevigiana, un terreno comune di confronto, e di proposta, libero da condizionamenti politici, che metta insieme i bisogni di tutti intorno alla questione fondamentale dello sviluppo della Marca e della assoluta necessità di ritrovare una reale coesione sociale? O resteremo confinati alla logica per cui, nel baillame della crisi, ciascuno chiede per sé, come gli industriali quando reclamano una incomprensibile maggiore flessibilità contrattuale?
Nessuno salverà sé stesso senza salvare gli altri: i lavoratori senza l'impresa, l'impresa penalizzando e umiliando il lavoro, facendosi coccolare dalle illusioni sacconiane secondo cui la risposta alla crisi dei mercati sono il basso costo e la destrutturazione del contratto e così la fine della democrazia industriale.
Per faticoso che possa essere la conclusione è che dovrebbe iniziare un percorso serio che ci porti, quando e se necessario, a non rivedere in piazza tre, quattro, dieci manifestazioni separate, ma assistere ad una mobilitazione unica, messa in atto non da una classe o da una categoria, ma da tutti quelli che hanno a cuore il futuro di questa provincia e di questo Paese. Mobilitazione che metta davanti alla richiesta e alla protesta, una proposta.
Solo un fronte unico di buona volontà e buon senso etico e morale può liberarci dall'essere ostaggio dei ladri di futuro interessati solo alle emergenze processuali del capo.
Chi è d'accordo batta un colpo.
Paolino Barbiero, segretario generale Cgil provinciale Treviso