Gentile direttore,
ieri si è svolto a Treviso un convegno sull'immigrazione trevigiana e veneta.
E' stato uno straordinario appuntamento con la memoria di una stagione drammatica e sofferta della storia di questa terra: l'emigrazione necessaria, il viaggio della speranza per darsi una vita migliore.
Ma è stata anche una grande occasione perduta: perché il racconto del viaggio delle valigie di cartone della nostra gente, della difficoltà di una vita in terre straniere e lontane, poteva incrociarsi con la stessa esperienza, non di ieri ma di oggi, di quegli uomini e donne che compiono il viaggio della speranza non più "dal" Veneto e "dalla" Marca trevigiana, ma "verso" il Veneto e verso la Marca Trevigiana.
Se solo la politica e le istituzioni locali che hanno promosso e sostenuto questo appuntamento avessero voluto, la presenza delle associazioni degli immigrati che vivono oggi tra noi avrebbe potuto trasformare l'occasione in un momento di riflessione non banale e superficiale su quello che è il presente della nostra società.
Avremo ad esempio potuto riflettere sui valori che gli emigranti hanno saputo conservare e trapiantare nelle terre d'adozione e accorgerci che sono gli stessi che gli immigrati portano con sé e che in tanti ci ostiniamo a voler negare, come se l'unica condizione per l'integrazione fosse l'assimilazione. L'identità culturale, la religione, i valori della tradizione non sono forse le stesse cose che i trevigiani hanno voluto coltivare nelle Americhe, in Australia, in Sudafrica e che i migranti, compresi i mussulmani, vogliono non essere costretti a nascondere, se non proprio a cancellare?
Qual è il senso di ricordare, come è stato fatto nel corso del convegno, che ovunque i trevigiani andassero ad essere costruite per prime erano le chiese e le osterie, se poi qui da noi la concessione di uno spazio per pregare e un luogo in cui incontrarsi sono, come nel caso degli islamici, addirittura motivo di turbamento dell'ordine pubblico?
E come possiamo riconoscere la sofferenza dei nostri conterranei che in Brasile, alla fine della seconda guerra mondiale, soffrivano per la proibizione all'uso della lingua italiana senza riconoscere in quel divieto la stessa matrice di risentimento culturale con cui noi oggi siamo tentati di stabilire il rapporto con gli immigrati?
Il convegno di ieri, come qualsiasi altro momento di confronto con la storia della nostra emigrazione, ci mette di fronte ad una grande ipocrisia: quella delle memoria corta, del "un peso e due misure".
Il passato dei nostri emigranti è un monito per il nostro presente: la lezione, dura da digerire per chi coltiva le paure come valore aggiunto elettorale, è chiara. Come ha ricordato ieri il Vescovo di Santo Spirito: tanto più si tende indietro l'elastico della fionda, tanto più lontano andrà il sasso.