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LETTERA AL DIRETTORE

Comunicati Segreteria - 26/08/2011

Lascio ai profeti dell'ottimismo, quelli che davano alla Cgil della "Cassandra" quando, 6 anni fa, ammoniva sul declino del sistema Paese o due anni fa metteva in guardia sulla gravità della recessione, il gusto di polemizzare sullo sciopero proclamato per il 6 settembre prossimo, cioè il giorno che precederà la discussione parlamentare della manovra aggiuntiva.

Uno sciopero preventivo, lo ha definito il ministro Sacconi, come se - e lo ha ben ricordato il segretario nazionale Camusso - qualcuno avesse mai visto uno sciopero postumo.
Si tratterà invece di una mobilitazione fondamentale, che vuole portare all'attenzione del Governo e dell'opinione pubblica non solo la contrarietà di una vastissima parte dell'Italia a questa spremuta di sacrifici chiesta ai soliti noti, ma anche le proposte della Cgil, formulate rispettando le indicazioni delle poste economiche previste dall'esecutivo. Proposte che guardano al risanamento ma anche allo sviluppo, che si ispirano alla giustizia sociale (cosa di cui questo governo non tiene conto per cultura politica) e che proprio per questo sono radicalmente opposte all'impianto che presenterà la maggioranza. Nella manovra non c'è una riga su misure che rilancino l'economia; questo è particolarmente significativo per la provincia di Treviso, che del sistema produttivo nazionale è stata locomotiva, con il resto del Nord Est, e anche laboratorio di idee e di modelli, salvo ancorarsi nell'illusione che piccolo fosse bello, quando invece le circostanze hanno dimostrato che piccolo a volte è pericoloso. Per i lavoratori dipendenti della Marca, con l'occupazione sempre più precaria, per i pensionati sempre più poveri, per il lavoro autonomo e per le imprese non c'è nulla in questa manovra incontestabilmente recessiva, se non la prospettiva di un declino del ceto medio verso la condizione di

Quarto Stato, quella classe sociale che le tasse le paga, che non ha più servizi pubblici e non potrà averne se non pagandoli sul mercato, che va in pensione di vecchiaia a 67 anni ( o di anzianità con oltre 41 anni) il livello più alto in Europa, mentre persistono sacche di privilegio previdenziale che non vengono rimosse. Una classe sociale, diciamolo pure senza timore di sembrare "antichi", fatta di sfruttati da quell'Italia dei grandi patrimoni, il mondo del latifondo finanziario che non solo esce pulito dalla crisi ma che su questa ci ha pure guadagnato, della mano morta dell'evasione fiscale imbrogliona, della speculazione antisociale. Sacche che si godono quel 50% di ricchezza nazionale che sta nelle mani di poco più del 10% della popolazione, indifferente allo sviluppo economico, alla stagnazione del ciclo, alla scarsità di reddito, alle fabbriche e agli uffici che chiudono.

Quell'Italia peggiore a cui si rivolge, elettoralmente e culturalmente, questo governo, l'Italia "padrona" che si si accontenta e gode delle incursioni ideologiche nel decreto, come i licenziamenti facili, le norme retroattive sulle Fiat, la distruzione dei presupposti di una nuova stagione di politica industriale e sindacale.
L'Italia, insomma, degli scudati e dei condonati, che vive parassitando i soliti sacrificati dagli oramai soliti provvedimenti: tagli ai Comuni e quindi ai servizi, soprattutto di welfare, allungamento dell'età pensionabile, blocco degli aumenti nel settore pubblico, la farsa di un tfr che dovrebbe alimentare la previdenza complementare e che invece il populismo elettorale del governo vuol fare precipitare dentro alla busta paga, tassandolo più di quanto non sia tassato oggi il tfr e buttato lì a rappresentare una goccia di liquidità che si perde nel mare dei problemi delle famiglie italiane.

L'ingiustizia e l'ingiustezza di questa manovra, che appesantisce i sacrifici già presenti in quella del 2010 e nella nuova manovra di luglio 2011, sono evidenti e stanno nei numeri, spietati, oggi declamati da un esecutivo imbroglione che solo qualche settimana fa parlava di situazione sotto controllo.
Queste le buone ragioni, di natura economica, per appellarsi ai lavoratori, ai pensionati, ai migranti, ai disoccupati, ai cassaintegrati della Marca e invitare alla più ampia partecipazione allo sciopero. Ma c'è dell'altro.

Questo governo, questa cultura di destra populista, condisce la sua politica economica sprezzante nei confronti del ceto medio e di quello popolare, che si pensa di poter continuare ad imbonire con le tivù, con un attacco alle radici della Repubblica.
Cancellare, di fatto, il Primo maggio, il 25 Aprile e il 2 Giugno significa cancellare, se non negare, il senso della nostra convivenza civile e costituzionale. Sarebbe come chiedere agli americani di celebrare il 4 luglio la prima domenica successiva, cosa che, per l'orgoglio dell'identità della propria nazione, non farebbero mai.
Ma forse è proprio questo che il governo vuole: cancellare il senso dell'identità di un Paese democratico, ispirato alla giustizia sociale, che mette il lavoro come primo valore nella propria Costituzione. Democrazia, giustizia sociale, lavoro: cioè quanto di più lontano ci sia dall'attuale governo e dalle sue politiche.

Paolino Barbiero, segretario generale Cgil provinciale Treviso