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INTERVENTO PER IL DIRETTORE

Comunicati Segreteria - 12/01/2009

Ci sono due modi di leggere le spaventose cifre date l'altro giorno dal Ministro del Welfare Sacconi sull'esplosione della cassa integrazione. La prima è quella rassicurante, adottata dal rappresentante del Governo: siccome cresce la cassa ordinaria, mentre diminuirebbe quella straordinaria, non c'è da temere troppo per la tenuta dell'occupazione, perché le aziende non stanno licenziando. E' vero?
Non proprio, perché i licenziamenti aumentano, le nuove assunzioni diminuiscono, i contratti a termine non vengono rinnovati e sono aumentate le persone che per sopravvivere sono costrette a lavorare in nero, sfruttate da un sistema economico ingordo. Aumentano i fallimenti e i concordati preventivi, con centinaia di imprese che fanno pagare il conto all'Inps non avendo accantonato il Tfr e versato i contribuiti previdenziali, ai dipendenti che avanzano stipendi arretrati, alle imprese fornitrici che non vengono pagate e rischiano a loro volta di entrare in crisi, fino ad arrivare alle banche che per recuperare i crediti non solvibili stanno chiudendo i rubinetti anche alle imprese sane.

La seconda non è pessimistica ma forse un po' più responsabile e aderente alla realtà: siamo ai segnali forti di una crisi conclamata che oramai in Italia si autoalimenta. Perciò servono politiche industriali, economiche, strutturali, e non fatte di una tantum "alla Tremonti". Il circolo vizioso, anche in Provincia di Treviso, inizia con la drastica riduzione del reddito disponibile (per i consumi, ma oramai anche per la sopravvivenza) e quindi porta ad una contrazione dei volumi di produzione, cioè alla crisi delle aziende e all'acuirsi delle difficoltà occupazionali. Il fenomeno non riguarda solo le auto, come si è tentato di dire, ma tutti i settori, dal manifatturiero al terziario.

Prima di affrontare il "cosa fare" è però giusto ricordare che la recessione piove sull'Italia dopo cinque anni di continua flessione dei fondamentali principi economici: è dal 2003 che i consumi calano e che il mercato del lavoro traballa, tanto che, ad esempio nella Marca, gli unici dati positivi della produzione hanno riguardato l'export, mentre il mercato interno è stato sostenuto in prevalenza dalla filiera dell'edilizia privata e industriale. La spiegazione è semplice: l'assenza di corrette politiche di sviluppo, fiscali e di ricostruzione di un welfare efficace hanno provocato una redistribuzione della ricchezza al contrario.

E' dal 2003 che la Cgil parla di "rischio declino", di cui sono stati chiari sintomi la povertà salariale, il posizionamento produttivo sulla fascia medio bassa con scarso valore aggiunto e quindi le "necessarie" delocalizzazioni. Si è abdicato alla politica industriale nazionale sull'altare di un liberismo immorale, che ha rotto il legame storico, tipico ad esempio del Veneto, tra capitalismo e solidarietà.

La legge 30 di tutto questo è stata solo la sublimazione; oggi tutti parlano del problema dei precari e dei lavoratori senza protezione che perdono il lavoro, dimenticando che il libro bianco di Marco Biagi riservava una parte non secondaria proprio al welfare in favore degli atipici. Perché non è stato applicato anche quel pezzo di riforma, che doveva garantire la flex security per milioni di lavoratori, così come sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil con il Governo Prodi nel protocollo sul welfare del 23 luglio del 2007?

Ora: si può reagire alla crisi implorando agli italiani di spendere, si può, come ha chiesto Tomat, lavorare gratis, proposta che francamente non mi sento neppure di commentare, si può vivere nel miraggio della defiscalizzazione degli straordinari che non si fanno più, o dei premi che non vengono più erogati, come ha provato a fare il ministro Sacconi, sbagliando di netto ogni previsione sul ciclo economico. Perché la crisi non nasce solo dal mercato finanziario, ma anche dal progressivo impoverimento del sistema produttivo e dei saperi. Io credo che ora occorrano due cose: non lavorare gratis, ma lavorare meglio, in imprese con solidità patrimoniale e conti economici trasparenti e positivi.

Sostenere con un welfare decente chi ha perso l'occupazione e individuare le prospettive produttive su cui investire in riqualificazione del processo produttivo, affinché chi torna sul mercato del lavoro lo possa fare a migliori condizioni salariali e professionali. Ultimo: rimettere i valori al centro del sistema capitalistico. Il capitalismo senza valori non fa cogliere il fine dell'economia, e quando ci pensa il libero mercato è troppo tardi per i danni occupazionali, finanziari e sociali che si sono determinati. Il fine dell'economia non è infatti quello di instaurare nuove regole per determinare il predominio nel branco, ma puntare al benessere collettivo. Di questo devono essere consapevoli i politici, ma soprattutto gli imprenditori, chiamati a contribuire in maniera determinante e insostituibile all'orientamento del processo di risanamento economico, sociale e morale del Paese.

Ci si dica se la società che affronta la crisi, e che da questa vuole uscire viva, è la società del più forte, basata su aiuti pubblici senza vincoli, o quella in cui una comunità responsabile capisce che senza dignità, che deriva anche dalla condizione economica e sociale, non c'è vera libertà.

Paolino Barbiero, Segretario generale Cgil provinciale Treviso