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LETTERA AL DIRETTORE

Comunicati Segreteria - 15/07/2010

Gentile direttore,
Una, dieci, cento Indesit. Per la precisione quattrocento, tante quante sono state, negli ultimi 18 mesi, le crisi gravi che hanno colpito importanti realtà produttive sia del mondo delle pmi che delle grandi imprese di questa provincia. Si tratta di disastri occupazionali che per metà sono finiti con una riduzione secca di personale attraverso licenziamenti diretti, per l'altra metà finiscono nel conto della cassa integrazione straordinaria, un viatico di ammortizzazione che, senza vera ripresa, sarà un lungo e inesorabile calvario versa la perdita definitiva del posto di lavoro.
I 400 casi che fanno della Marca un monumento alla crisi mangia-aziende e mangia lavoro sono certo figlie del ciclo economico negativo, ma hanno come antenati la strutturale debolezza del nostro sistema economico: piccola dimensione d'impresa che impedisce di stare sui mercati internazionali, forte indebitamento, scarsa propensione all'innovazione.

E, soprattutto, la totale assenza di politiche industriali che invece di rincorrere l'emergenza, peraltro il più delle volte con messaggi a sola vocazione mediatica e scarsa efficacia pratica, siano in grado di dare un orientamento, una visione, una linea guida con la quale non solo superare la recessione ma anche proiettarsi verso un futuro di nuova competitività.

Il caso Indesit è emblematico di questa carenza di intelligenza politico-strategica.
La vicenda Indesit non è facile da risolvere ma una strada ci sarebbe: quella di chiedere all'azienda di lasciare qualche cosa, cioè quei 7/8 milioni di valore della produzione, attualmente in perdita, in una operazione di coinvolgimento di imprese e imprenditori interessati a rilanciare attività e produzione, con un patto sul marchio, che salvi e valorizzi un pezzo della lunga filiera della produzione elettrodomestica e delle cucine, che ha in questa provincia uno dei principali poli italiani. Restano le altre 399 emergenze, che non potranno essere risolte un colpo alla volta, magari pensando che il can-can mediatico a cui tutti si appendono per lo straccetto di visibilità quotidiana, sia la strada per far quadrare i conti.

Senza politica industriale non si uscirà dal tunnel della crisi sani e salvi, né si potrà identificare la strada per centrare l'obiettivo di recuperare forza sui mercati. La politica industriale di cui si parla, e che serve, non è solo e tanto quella nazionale, ma soprattutto quella declinata a livello locale: università, politiche attive del lavoro, credito, formazione, infrastrutture.
Invece della politica industriale c'è invece uno sterile scontro di opinioni. Da una parte ci sono le forze di governo, soprattutto la Lega, che di fronte all'emergenza lavoro rispondono spostando più in là il boccino delle paure: le esportazioni cinesi o il lavoratore migrante, tutto condito da un poco convincente neolaburismo, come quello di Muraro che oggi critica la capannizzazione della provincia di Treviso, dimenticandosi che stanno governando loro la Provincia di Treviso da oltre 15 anni, molto bravi a radicare il potere, meno a fare le politiche per lo sviluppo economico.

Dall'altra c' è una opposizione frammentata e che a volte appare in confusione e debito di iniziative, che cade nella trappola di rincorrere, un argomento alla volta e un licenziamento dopo l'altro, una crisi sistemica che invece merita, oltre all' esposizione sui giornali un più forte e finanziato impegno ad articolare una politica di ampie strategie, di grande visione, che metta le istituzioni alla guida dei processi virtuosi che possono spingere il sistema economico a migliorarsi, a consolidare il lavoro, a rafforzare la qualità dell'occupazione, riportandola almeno ai livelli di quattro anni fa (circa 400 mila occupati, contro i 350 mila di oggi) senza peggiorare i diritti, ma rafforzando e modernizzando le tutele. A mettere insomma in sicurezza, al di là della contingenza, la tenuta e la coesione del tessuto sociale.

In questa logica di scontro e non di dialettica, pare ci si accontenti dell'intervento del sindacato. Che è, nei fatti, importante; ma che non può sostituirsi ad un azione più globale e sistemica. Giustamente non sono i 700 mila euro previsti dall'accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Provincia sul fondo per rispondere alle nuove difficoltà, che risolveranno il problema. Si tratta di un piccolo passo in avanti ma per andare oltre, e lo dico soprattutto ai critici, bisogna dire che cosa si vuole fare, di più e di meglio, come lo si vuole fare. Avere cioè una visione di lungo periodo, anche dall'opposizione, non una tattica del giorno per giorno guidata dai titoli dei giornali ma soprattutto una azione nel territorio, a cominciare da una iniziativa politica forte che parta dai consigli comunali e che arrivi all'opinione pubblica, per dare consapevolezza rispetto a quello che sta succedendo.

Ci sono due futuri che la politica locale può disegnare per questo territorio: quello che prende spunto dalle azioni e dalle proposte concrete, cioè da una visione di politica industriale, e quella delle azioni mediatiche, la maniera di stare appesi al pero a farsi notare quando i problemi sono in realtà sotto l'albero e non sopra.

E' questa la scelta da cui dipende la capacità o meno di rispondere positivamente alle maggiori preoccupazioni della società trevigiana, che oggi riguardano il lavoro e l'occupazione e il modello di stato sociale.
Il deficit che dobbiamo colmare, superando anche il clima da campagna elettorale permanente, è quelle delle buone idee, della disponibilità alla discussione. Quello di agire non solo per essere notati dalla stampa, ma per lasciare un segno nella qualità della vita presente e futura della nostra gente.
Senza un dibattito più alto, più attento, senza idee di politica economica, l'Indesit resterà un caso eclatante e le altre 399 realtà la musica di sottofondo di una inesorabile marcia funebre.

Paolino Barbiero, segretario generale Cgil provinciale Treviso