Immagine di copertina

LETTERA AL DIRETTORE

Comunicati Segreteria - 09/09/2011

Dei circa quattro milioni e mezzo di imprese italiane il 90,7% ha meno di 10 dipendenti.
La percentuale in provincia di Treviso è lievemente superiore al dato nazionale.

Il dato è particolarmente significativo rispetto alla battaglia tutta ideologica condotta dal trevigiano ministro Sacconi e la sua frenesia, curiosamente assecondata o non adeguatamente frenata da altri sindacati, di arrivare ad un sistema che preveda deroghe al contratto nazionale, allo statuto dei lavoratori e una maggiore libertà nei licenziamenti superando l'art. 18.

Se oltre il 90% delle imprese italiane non ha che fare con i cosiddetti "lacci e lacciuoli" che sono l'ossessione del ministro, e anzi in queste imprese la libertà di licenziamento è ampia, semmai ci sarebbe da intervenire per un sistema più adeguato di tutela. Che necessità c'era, dal punto di vista degli effetti sull'economia, di stravolgere il dettato dell'art 18? Nessuna.

In primo luogo la platea delle imprese e dei lavoratori interessati è residuale. Secondariamente non sono i vincoli in materia di licenziamento a frenare la crescita dimensionale e los viluppo delle imprese, ma fattori economici, produttivi, tecnologici e culturali. Terzo: nelle pmi, quelle che stanno tra i 50 e i 250 addetti e i grandi gruppi esiste già una amplissima flessibilità, non solo nei processi produttivi ma anche nelle relazioni sindacali. Non a caso in queste aziende si fanno accordi di secondo livello che adattano le condizioni e l'organizzazione del lavoro alle necessità determinate dagli assetti produttivi delle rispettive imprese.

Dove serve si lavora il Primo Maggio, il 25 Aprile, il 2 Giugno, si fa lo straordinario, la flessibilità e quant'altro si renda necessario con le turnazioni di orario per soddisfare il mercato di riferimento, il tutto nel rispetto della gerarchia delle fonti stabilite dal Contratto Nazionale e di quanto contrattato a livello aziendale.
Quindi riformulo la domanda: quale è il senso di un provvedimento di dubbia valenza costituzionale, perché con un decreto si cerca di modificare il contenuto di una legge?

È chiaro che l'obiettivo del ministro è quello di tirare la corda.
Lo fa sul fronte dei valori e dei diritti, che ci vedono decisamente dall'altra parte: lui è quello delle flessibilità estrema senza un vero apparato di ammortizzatori sociali efficaci per gli atipici, noi da quella di una flessibilità che sia disciplinata da norme condivise e nell'ambito di tutele per l'insieme dei lavoratori.
Lui è quello della "legge Biagi", di cui ha però applicato solo le parti che servivano ad aprire lo scontro con la Cgil e ad allargare la frattura tra i sindacati, noi quelli che ricordano come l'idea stessa di Biagi fosse legata ad una profonda riforma del welfare, cioè la seconda parte del famoso "libro bianco", che non è stata minimamente applicata.
Lui, assieme a Tremonti, pensa che "è tutto consentito quello che non è vietato", noi siamo dalla parte della certezza del diritto sia per l'impresa che per i lavoratori, altrimenti prevale la logica del far west.

Lui diceva che l'Italia stava meglio di altri Paesi, durante la crisi, rispetto alle dinamiche del mercato del lavoro, e non era vero: i dati sulla disoccupazione giovanile, i numeri delle crisi aziendali, i licenziamenti, il calo dei fatturati, assieme ad altri indicatori economici e sociali, ci dicono l'esatto contrario. E sempre Sacconi sosteneva che l'applicazione degli strumenti di welfare (e parlava della cassa integrazione) avesse protetto il reddito delle famiglie rispetto alla recessione, quando invece solo ieri la London School of Economics, non l'ufficio studi della Cgil, ci ha detto che l'Italia è il Paese in cui il reddito dei lavoratori, autonomi e dipendenti, ha subito la flessione più rilevante: fino al 30% per i livelli medio bassi.

Con l'articolo 8 Sacconi e il governo possono ben prendersi la rivincita sui falliti blitz ai danni dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, creando uno stato di giungla, perché in molte delle imprese medie il sindacato non c'è, e quello strumento finirà per esser usato per depotenziare il rapporto paritario fra lavoro e capitale, e diventerà una arma per la regolazione di conti o per esercitare pressioni mettendo gli stessi lavoratori gli uni contro gli altri.
Gli effetti sulla crescita del Pil saranno zero, ma è una indubbia vittoria ideologica che non rappresenta un valore per un sistema produttivo che mira a competere a livello globale.
Ed è bene che i lavoratori e i cittadini sappiano e capiscano che le deroghe territoriali alle norme nazionali non sono un esercizio di diritto federalista, ma un ingrediente indigesto di quel "lascia fare, lascia passare" iperliberista secondo cui i modelli di sviluppo sono quelli cinesi o vietnamiti, e i diritti del lavoro e la dignità delle persone solo ostacoli al mercato.

Infine: risponderei all'infelice esempio-barzelletta delle suore e dei briganti dicendo che la Cgil è orgogliosa di "non darla" vinta a un governo come questo, per quanto di questi tempi sembri stupefacente non essere e fare la mignotta, pur (tra)vestita di smacchevole bigottismo.

Paolino Barbiero, segretario generale Cgil provinciale Treviso